Shine
(Scott Hicks)
di Michela Carpentiere*
David Helfgott è un bambino prodigio cresciuto con a un
padre-padrone che, per proteggerlo dal mondo esterno, gli impedisce
ogni possibile contatto con questo. David
non ha compagni con cui giocare: l’unico con il quale dialoga è il
suo pianoforte, attraverso il
quale tramuta le note in discorsi musicati.
La sua ascesa musicale pare senza freni, ma il padre imporrà tutta
la sua autorità per impedirgli di approfondire gli studi lontano da
casa.
Il giovane divenuto poi un adolescente insicuro, con molti sforzi
riuscirà ad andare a Londra, spezzando
definitivamente il rapporto con la famiglia. Grazie agli
insegnamenti appresi David otterrà
un maggiore controllo dei suoi virtuosismi musicali.
Pur divenendo uomo, egli rimane interiormente un bambino,
rifugiandosi nel suo mondo fatto di ricordi infantili e musica.
Giunto all’apice della sua carriera proprio quest’ultima tradirà: il
concerto N°3 di Rachmaninov eseguito da lui con precisione
matematica, lo porterà alla pazzia.
Internato in una clinica psichiatrica, ne uscirà grazie all’amore di
Gillian e alla riscoperta della sua arte.
Secondo me il vero soggetto di Shine non è la musica, quanto
l’amore: quello negato di un padre che respinge il proprio figlio,
quello ritrovato di David per la musica ed infine quello sincero che
prova per Gillian.
Ciò che mi ha profondamente colpito di questo film è la capacità del
regista di esaltare, tramite lo “splendore” di questo genio, tutta
la potenza ed il fascino della musica, intesa come espressione
suprema di bellezza.
Mi sento di definire questo film come una metafora della bellezza
che è ovunque, fuori e soprattutto dentro ognuno di noi: basta
saperla cogliere.
Lo scorrere delle dita di David sul pianoforte e il racconto dei
suoi occhi dolci e smarriti mi hanno trascinato in una’altra realtà,
quella di chi sa esprimersi solo attraverso l'arte.
*iscritta al corso autori tv/giornalismo, anno accademico 2009-2010